L'insostenibilità dell'industria modaServe una nuova rotta per fare i conti, anche con l'ambiente




All'industria della moda è richiesto un cambio di approccio in termini di impatto ambientale. A imporlo non è la risvegliata coscienza delle masse sui pericoli di sopravvivenza che corre il nostro pianeta, ma la stessa sussistenza economica di un indotto produttivo chiave.

Più che le parole, sono i numeri e le proporzioni a illuminare la gravità del rischio a cui ci stiamo esponendo:

  • 8 per cento (1,2 miliardi di tonnellate) di emissioni di gas serra mondiali, maggiore di quanto cumulano collegamenti navali per il trasporto di merci e voli aerei internazionali, per la produzione di capi di abbigliamento e di scarpe;
  • un monte complessivo di anidride carbonica pari a 3,3 miliardi di tonnellate, che non si discosta di molto, per difetto o eccesso, rispetto al dato totale europeo;
  • 2.700 litri di acqua (corrispettivo del consumo pro-capite in due anni e mezzo) per ogni t-shirt di cotone pronta per la vendita, anche se la fibra più utilizzata (con una fetta del 65 per cento) per i prodotti di abbigliamento risulta essere un derivato del petrolio, il più economico e 'da battaglia' poliestere, che comporta però valori doppi di impatto ambientale.

Altre informazioni e indicazioni preoccupanti sono contenute all'interno del report di Barclays 'Global fashion: green is the new black', da cui si evidenzia una crescita continua attesa sul piano sia del business, che andrà sempre più a scontrarsi con evidenti problemi di redditività e di tenuta; e sia dell'impronta devastante, che il settore della moda sta lasciando sul nostro pianeta.

Vestiti e accessori immessi 'ex novo' incessantemente sul mercato e spesso destinati a ingrossare gli stock di magazzino, pensati per consumatori 'bulimici' ma che finiranno per limitarsi ad 'assaggi' (l'esplosione della 'fast fashion' - dove a comandare è il prezzo - ha fatto sì che la vita utile di un capo sia contenuta nel tempo e nella frequenza di utilizzo), avviati a ingrossare le montagne di rifiuti verso la discarica o l'inceneritore (percorso che riguarda l'80 per cento di quanto abbandona per sempre i nostri armadi).

Invertire ora la rotta avrebbe i seguenti risvolti: frenare un'emorragia annua pari ai 500 miliardi di dollari (fonte: Ellen MacArthur Foundation) persi dall'industria di settore a causa, appunto, di un sistema che produce e brucia quasi subito la propria fonte di guadagno; e contrastare il calo di tre punti percentuali nel margine Ebit connesso all'aumento del costo del lavoro e alla parallela scarsità di risorse (idem), da cui 52 miliardi di dollari di perdita globale di profittabilità

Sviluppo di nuovi materiali meno impattanti e loro scalabilità, revisione del processo produttivo per una riduzione degli sprechi, ricorso a meccanismi circolari tra cui le piattaforme riservate ai beni di seconda mano, sono i pilastri indicati nel report Barclays grazie ai quali si può puntare a conseguire una serie di traguardi economici: più 32 miliardi di dollari grazie al risparmio sui consumi dell'acqua, a cui se ne devono aggiungere altri 7 (prodotti chimici)e 4 per il taglio agli scarti; più 67 miliardi di dollari per il contenimento delle emissioni energetiche

Non muoversi in tal senso farà avverare le stime, di qui al 2030, di Boston Consulting Group (BCG) e Global Fashion Agenda: aumenti nei consumi d'acqua (50 per cento), rifiuti creati (tonnellate - 52 per cento), emissioni (63 per cento).

A un intervallo temporale più ampio che va al 2050, la già citata Ellen MacArthur Foundation ascrive un potenziale quarto del 'carbon budget' globale (il bilancio del ciclo del carbonio che consiste nel contenimento delle emissioni di gas ad effetto serra a un trilione di tonnellate di carbonio o 3.667 gigatonnes di anidride carbonica).